Reddito di cittadinanza? meglio il REI

Da quando lavoro come assistente sociale ho capito la necessità di garantire a tutti i cittadini un’entrata economica, perché non è accettabile che ci siano persone che non possono comprarsi da mangiare o pagare una bolletta. Sono grata ai 5stelle per aver portato questo tema nel dibattito politico, ma… spero ardentemente che il reddito di cittadinanza che propongono non diventi realtà! Perché? Per cinque buoni motivi:

  1. un reddito minimo per tutti oggi c’è già e si chiama ReI
  2. le riforme sul welfare si fanno insieme a chi di welfare si occupa 
  3. la povertà è un fenomeno complesso e non è legato solo alla disoccupazione
  4. i centri per l’impiego sono in grave difficoltà e non si riformano in pochi mesi
  5. 780€ sono tantissimi soldi, soprattutto in un Paese piagato dal lavoro in nero

Provo a spiegarmi meglio.

1. Un reddito minimo per tutti oggi c’è già e si chiama ReI.

noun_salary_1514715Se ne parlava da almeno vent’anni (correva l’anno 1997 quando la Commissione Onofri scriveva queste cose) e finalmente c’è stata una congiuntura astrale che ha reso possibile avere in Italia un reddito per tutti: nel settembre 2016 è nato il Sostegno all’Inclusione Attiva (SIA) e nel dicembre 2017 questo SIA si è evoluto nel Reddito di Inclusione (ReI). Quindi oggi c’è già un reddito per chi non lavora e non ha “né arte né parte”.

Tra l’altro, è una misura di welfare che non solo prevede un’erogazione monetaria, ma anche dei servizi che accompagnino la persona o la famiglia verso l’inclusione sociale e lavorativa, cercando di integrare gli interventi sociali con quelli educativi, lavorativi, sanitari. Altra importante novità è che questa misura è universale, cioè si rivolge a tutti i cittadini che si trovano al di sotto di un certo livello ISEE, senza distinguere in ulteriori categorie. E’ anche una misura strutturale, per cui destinata a diventare un pilastro del nostro sistema di protezione sociale. E’ poi una misura nazionale e, udite udite, costituisce un livello essenziale di assistenza, cioè è qualcosa che lo Stato si impegna a garantire sempre e comunque, perciò diventa un diritto esigibile da parte del cittadino.

Non so se mi spiego… in un sistema di welfare caratterizzato da meri trasferimenti economici, che ha sempre sofferto di interventi settoriali, categoriali, estemporanei, territorialmente disomogenei e in ogni caso mai garantiti (un welfare che mi ha sempre fatto molto arrabbiare!), siamo arrivati ad avere una misura che supera tutte queste tare.

Ovviamente, come tutte le grandi riforme ha bisogno di essere messo a regime e corretto strada facendo, sapendo già che la strada non sarà breve (gli studiosi parlano di almeno un triennio). Ma un conto è progredire su un cammino ben avviato, un’altro è fare tabula rasa di tutto il lavoro svolto e buttare via il bambino con l’acqua sporca.

Ora, io lo so che ogni governo che arriva vuol far vedere che le cose le sa fare solo lui e meglio di quelli di prima: però vi prego in ginocchio di non fare la riforma della riforma!!! Dateci il tempo di lavorare e vi faremo vedere i frutti.
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2. Le riforme sul welfare si fanno insieme a chi di welfare si occupa

noun_team building_1016130Come mai il ReI è una misura che per la prima volta si lascia alle spalle tutti i peggiori difetti del nostro welfare, le “tare” di cui parlavo prima? Perché il governo che ne ha scritto la legge ha ascoltato l’Alleanza contro la povertà, che è un soggetto che raggruppa tutte le realtà che si occupano di povertà e disagio sociale in Italia.

Bisogna riconoscere che l’Alleanza è stata bravissima a porsi come interlocutore unitario e credibile e a presentare al governo una proposta concreta e ben congegnata. D’altra parte, il governo e i funzionari governativi sono stati sufficientemente umili nell’ascoltare la voce degli studiosi che si occupano di povertà e degli operatori che i poveri li incontrano tutti i giorni. Chi meglio di loro sa quali sono gli interventi migliori per sostenere le persone in condizione di marginalità economica e sociale?

In questo momento, l’Alleanza contro la povertà si sta sgolando per dire a questo governo di non procedere sull’insidiosa strada del reddito di cittadinanza ma di proseguire il cammino del ReI. Io li ascolterei.
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3. la povertà è un fenomeno complesso e non è legato solo alla disoccupazione

noun_Complexity_1119932Il reddito di cittadinanza proposto dal governo parte dal presupposto che se sei povero è perché non hai lavoro, quindi se ti trovo il lavoro hai risolto tutti i tuoi problemi. Sbagliato.

E non solo perché ci sono i cosiddetti working poor, cioè quelle persone che pur lavorando guadagnano troppo poco per sbarcare il lunario. Ma anche perché ci sono persone che non sono in grado di stare dentro il mercato del lavoro, ad esempio perché hanno problemi psichiatrici o di dipendenza da sostanze. Oppure perché hanno un carico assistenziale (un figlio con disabilità, un genitore non autosufficiente…) che impedisce loro di lavorare. O, ancora, perché non hanno sufficienti competenze per il mercato del lavoro… Altre volte invece i lavoratori sono sufficientemente qualificati, ma è il mercato ad assorbire poca mano d’opera! Insomma, la realtà è varia e sfaccettata.

Gli studiosi ci dicono che la povertà è un fenomeno multifattoriale che non può essere affrontato in modo semplice e univoco, e qualsiasi assistente sociale può confermare con la propria esperienza che non esistono ricette universali, soprattutto per aiutare le famiglie multiproblematiche.

Meglio continuare con il ReI che, accanto ai percorsi di reinserimento lavorativo, prevede percorsi di riattivazione personale e reinserimento sociale dei soggetti più marginalizzati.
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4. I centri per l’impiego sono in grave difficoltà e non si riformano in pochi mesi

noun_Office_26565Le difficoltà dei centri per l’impiego (CPI) sono note a tutti: sotto dimensionati rispetto al fabbisogno, inefficienti sia verso le persone disoccupate che verso le aziende, hanno un ruolo marginale nel matching tra domanda e offerta. E’ giusto cercare di migliorare le cose, ma le rivoluzioni non si fanno dalla sera alla mattina. Innanzitutto perchè i CPI sono enti pubblici, quindi per assumere nuovo personale devono indire concorsi e questo richiede mesi e mesi di tempo. Ma facciamo pure finta che dal primo gennaio ci siano già tutti i neo assunti che abbiamo bisogno. La prima domanda è: dove li mettiamo? Intendo fisicamente. Dal momento che le attuali sedi dei CPI non dispongono di schiere di uffici vuoti, bisognerà affittare degli spazi nuovi e poi arredarli con tutto quello che serve per farli funzionare. Ma questo richiede tempo. Occorre poi ristrutturare i processi organizzativi interni per inserire le nuove figure, quindi aggiungere integrare le nuove figure (e funzioni) con quelle già presenti. Ma anche questo richiede tempo. Infine, ed è forse la cosa più complicata, questi nuovi CPI dovranno lavorare a lungo prima di rifarsi la reputazione e diventare un punto di riferimento sia per i lavoratori che per le imprese. Se siamo ottimisti possiamo immaginarci che dopo cinque anni si potrà vedere qualche segnale di cambiamento.

Ma se anche tutto questo processo superasse le nostre più rosee aspettative, di per sé non garantirebbe la piena ricollocazione dei lavoratori disoccupati perché le effettive possibilità di lavoro non dipendono solo dal fatto che funzioni l’incontro tra domanda e offerta ma anche dall’effettiva presenza o meno di opportunità lavorative. Ecco, su questo sì che servirebbe un grande impegno del governo.

Per il resto, evitiamo di sovraccaricare adesso dei servizi che saranno a regime tra chissà quanti anni e investiamo i CPI di aspettative ragionevoli.
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5. 780€ sono tantissimi soldi, soprattutto in un Paese piagato dal lavoro in nero.

noun_rich_1553405Chi studia gli schemi di reddito di ultima istanza sa che il suo importo deve essere ben calibrato e deve bilanciare due esigenze: da una parte garantire un’esistenza dignitosa, dall’altra non scoraggiare l’attivazione lavorativa del cittadino. In altre parole, un importo troppo alto tende a scoraggiare le persone a cercare un lavoro e a favorire il lavoro nero. Ora, in un Paese in cui lo stipendio medio è 1.500€, da cui devi togliere le spese di trasporto per raggiungere il posto di lavoro, il costo dell’auto, il pasto fuori casa, magari anche il costo di un aiuto domestico che ti sostituisce in casa, lo stress e la fatica… se lo Stato garantisce 780€ a prescindere, viene da chiedersi a chi conviene lavorare. Perlomeno in regola. Non sapessimo che siamo il Paese dell’evasione fiscale e del lavoro nero, capisco! Ma dal momento che l’Istat fornisce tutti i dati sul sommerso non abbiamo più scuse.

E’ così difficile immaginare che ci saranno schiere di persone scarsamente interessate a farsi mettere in regola per non perdere il beneficio economico (che tra l’altro è previsto “a vita”)?

Insomma, questo reddito di cittadinanza mi sembra proprio un gran pasticcio. Ma siamo ancora in tempo per evitare il patatrac. Basta fermarsi un attimo a riflettere e a riformulare le proposte: che le maggiori risorse economiche siano destinate al ReI e che la riforma dei centri per l’impiego venga avviata, ma con intelligenza e senza fretta.

3 thoughts on “Reddito di cittadinanza? meglio il REI

  1. E non dimentichiamoci che di questi dipendenti pubblici ce ne sono circa 9000 in Italia, molto spesso dequalificati e in strutture prive persino di connessione a internet, contro i 60mila addetti in Francia e i 110mila in Germania -, e quanti soldi sono stati messi a bilancio – 1 miliardo, quando la Germania ci spende complessivamente 9 miliardi all’anno, solo per corsi di formazione e aiuto a trovare lavoro, e per ristrutturarli, una quindicina di anni fa, ne ha spesi 11 tutti in una volta sola

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