L’affido partecipato

Affido-familiareVi ricordate gli UFE? no, non gli oggetti volanti non identificati! Parlo degli “Utenti e Familiari Esperti”, quella bellissima figura inventata dal Servizio di salute mentale di Trento all’interno del “Fareassieme“, il paradigma di lavoro in cui sono coinvolti alla pari utenti, familiari, operatori e cittadini che così imparano a lavorare assieme. Ve ne avevo parlato qualche tempo fa in questo post.

Proseguiamo il nostro viaggio tra le prassi che si sforzano di mettere veramente al centro l’utente, valorizzando le sue risorse al punto da riconoscerle indispensabili per la progettazione e realizzazione del progetto di intervento. Andiamo in un altro ambito delicato, quello della tutela dei minori e in particolare dell’affido.

E già ci cominciano a tremare i polsi… stiamo parlando di coinvolgere i genitori dei bambini per i quali è stato riconosciuto uno stato di pregiudizio? Quindi vogliamo lavorare proprio con coloro che sono stati responsabili del malessere dei propri figli o comunque non sono stati in grado di proteggerli? brr…. un controsenso!

A ben vedere, però, solo apparente. Perché se i Servizio sociali, con o senza il decreto del Tribunale per i Minorenni, sono arrivati a pensare a un progetto di affido, significa che siamo ancora in presenza di una responsabilità genitoriale (ex potestà genitoriale). E questa non solo può ma deve poter essere esercitata. Per quanto in difficoltà, quel papà e quella mamma hanno comunque delle risorse da spendere nella relazione e nella cura del proprio figlio e, seppur con delle limitazioni, sono ancora in gioco sia dal punto di vista formale (giuridico) che sostanziale.

Certo, come Servizio sociale sappiamo che dobbiamo continuare ad occuparcene anche dopo che abbiamo collocato il minore in affido, ma gli interventi che abbiamo in mente riguardano, appunto, la famiglia d’origine. Al progetto di affido ci pensiamo noi, ci mancherebbe anche!

Oppure… oppure possiamo provare a fare altri pensieri. Cominciando col credere che in quella famiglia ci sono degli adulti comunque interessati al benessere del proprio bambino. E che nessuno più di loro conosce la quotidianità della propria famiglia, le cose che vanno bene e quelle che vanno male, i problemi che hanno avuto e i tentativi che hanno fatto per affrontarli, che cosa ha funzionato e che cosa no, chi li aiutati e come.

Se riconosciamo alle persone il fatto di avere un proprio “sapere” anzi, di essere addirittura gli esperti della propria situazione, cioè coloro che hanno tutta una serie di informazioni e pensieri a riguardo, allora le cose cominciano a cambiare. Non siamo noi, operatori professionali, gli unici ad aver qualcosa da dire rispetto a quella situazione familiare, ma condividiamo la scena con i diretti interessati. Gli restituiamo protagonismo. Mettiamo il luce il loro sapere esperienziale e lo parifichiamo al nostro sapere professionale, ammettendo che il risultato migliore sarà frutto della sinergia tra i due.

Cosa significa in pratica? Significa fare della partecipazione la cifra distintiva del progetto d’affido. Promuovendo progetti di “affido partecipato” come fa da tempo la cooperativa sociale “La casa davanti al sole“. Non sto a competere con l’ottimo libro di Valentina Calcaterra nella spiegazione del modello: nel suo testo c’è una chiara teorizzazione delle prassi della cooperativa con tanto di esemplificazioni e approfondimenti.

Provo solo a dare qualche cenno per far capire a grandi linee di che cosa stiamo parlando.

Realizzare un affido partecipato significa avere in mente di coinvolgere la famiglia d’origine fin da subito. Ragionando insieme a lei sulle caratteristiche che dovrebbe avere la famiglia affidataria: meglio dello stesso Comune? con figli grandi? senza figli? della propria religione? ecc… Invitare la famiglia a fare delle riflessioni rispetto a che cosa può far star bene il proprio figlio significa innanzitutto riconoscere il suo ruolo e il suo sapere. Per fare un esempio terra terra, solo chi conosce da vicino quel bambino può dire, ad esempio, di evitare una casa col cane perché lui è allergico.

Ma significa anche aiutare la famiglia d’origine a capire cosa significa effettivamente fare dei pensieri orientati al benessere del bambino. Ed è qui che effettivamente i genitori “esercitano” la loro responsabilità genitoriale, nel senso proprio di allenarla, metterla alla prova e farla crescere. In questo senso, nel caso in cui le posizioni che esprime non sono accoglibili dal Servizio, questa diventa l’occasione per ragionare su perché non lo sono, che cosa comportano, che problemi potrebbero esserci per il minore. Quindi sollecitare la partecipazione e porsi in un atteggiamento di ascolto non significa accettare acriticamente tutto quello che viene detto.

E non significa nemmeno delegare le scelte alla famiglia, poiché la responsabilità del progetto di affido è comunque dell’operatore dell’ente pubblico.

Ma chi intendiamo per “famiglia d’origine“? In linea di massima, gli adulti presenti in quella famiglia (genitori, nonni, zii…) che non abbiano dato evidente prova di incapacità nel riconoscere il benessere del minore (ad esempio adulti abusanti) e che siano in grado di sostenere una conversazione su un piano di realtà (quindi compensati psichicamente e non limitati dall’utilizzo di sostanze alteranti). Quindi gli adulti che, al di là dei limiti dimostrati, sembrano comunque interessati al benessere del proprio bambino.

Attenzione che “interessati” non significa necessariamente “allineati” sulle posizioni dei Servizi sociali. Anzi, difficilmente lo sono. Non confondiamo l’interesse a partecipare con il consenso; ma consideriamo che anche il dissenso è un segnale di interesse. Certo, bisogna prendere il coraggio a quattro mani per avere la forza di chiamare in causa proprio chi sappiamo di avere contro… sembra quasi di tirarsi una zappa sui piedi. In realtà, se consideriamo che comunque il dissenso verrà fuori, magari sotto forma di sabotaggio al nostro progetto di affido, è preferibile trovare subito uno spazio dove far emergere i dubbi e le contrarietà per poterle gestire alla luce del sole. Ed è più probabile che le ostilità e le diffidenze vengano gradatamente meno se ci poniamo in un atteggiamento di apertura e interesse piuttosto che di contrapposizione.

Realizzare un affido partecipato significa “tener dentro” la famiglia di origine lungo tutto il percorso: facendole incontrare la potenziale famiglia affidataria, così che possa conoscerla prima dell’ingresso del suo bambino e le possa dare alcune indicazioni utili per una buona accoglienza; organizzando periodicamente dei momenti di aggiornamento tra famiglie e operatori in cui vengano condivise le notizie più rilevanti e prese collegialmente le decisioni nell’interesse del minore.

Il fatto che le due famiglie si incontrino rappresenta sicuramente un elemento di novità rispetto agli affidi “tradizionali”: ma è proprio attraverso la conoscenza reciproca tra gli adulti che si può tentare di ricomporre l’universo di affetti del bambino. Già il dover stare in due contesti familiari diversi, con regole, abitudini, modalità comunicative spesso molto lontane, crea nel bambino una fatica. Se poi questi mondi non si parlano e, più o meno tacitamente, nutrono sentimenti di diffidenza e incomprensione per le scelte altrui, allora la situazione è davvero pesante.

Come può il bambino vivere serenamente l’esperienza dell’affido, se i suoi genitori parlano male degli altri? E se intuisce che gli affidatari disapprovano le scelte dei suoi? Visto che nella testa e nel cuore del bambino questi mondi coesistono, vale la pena di farli incontrare anche nella realtà. Anche perché dare un volto e un contorno umano all’altro aiuta a sciogliere tante resistenze. E, per il bambino, stare dentro un contesto il meno frammentato e conflittuale possibile limita l’insorgenza del cosiddetto conflitto di lealtà: “posso stare bene nella famiglia che mi ha accolto senza sentirmi in colpa nei confronti della mia vera famiglia, perché lei è d’accordo”.

Ci sarebbero da dire tante altre cose, ma probabilmente quello che ho scritto fa già intuire l’anima dell’approccio partecipato. Resto in attesa di vostri commenti!

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