L’assistente sociale comunale: strategie professionali per sostenere un ruolo complesso

image001E’ stato pubblicato su Welfare Oggi* questo mio articolo sulle strategie professionali per sostenere il complesso ruolo dell’assistente sociale comunale.

“La mancanza di adeguati finanziamenti statali alle politiche sociali fa sì che molto spesso le risorse economiche per sostenere i servizi e le prestazioni sociali gravino prevalentemente sui bilanci delle amministrazioni locali. Questa situazione induce molti Comuni a compiere scelte difensive e orienta i politici e il personale amministrativo ad agire per salvaguardare le risorse economiche dell’ente, percepite come sempre insufficienti. Gli assistenti sociali che operano all’interno degli enti locali avvertono queste pressioni, ma sentono anche l’esigenza di mantener fede alla propria etica professionale che li vuole al servizio dei cittadini. Quali strategie professionali mettere in campo per riuscire a stare all’incrocio di questi diversi mandati?

Da una parte il mandato organizzativo, che impone al dipendente comunale un budget e degli obiettivi precisi, definiti dagli amministratori locali attraverso il Piano Esecutivo di Gestione.
Dall’altra il mandato professionale, che chiede all’assistente sociale di operare per la salvaguardia degli interessi e dei diritti dei cittadini con cui si relaziona.

In mezzo il dipendente comunale/assistente sociale: una figura “bifronte”, che deve accogliere e valutare le situazioni sociali delle famiglie per progettare interventi da finanziare con risorse incerte e limitate. Un ruolo “di confine” decisamente scomodo e dilemmatico.

Come in altre situazioni di doppia appartenenza, il fatto di essere in mezzo genera un conflitto di lealtà: non posso ignorare le richieste dell’ente per cui lavoro e quindi fingere di non avere vincoli economici; d’altra parte empatizzo con la situazione di bisogno che mi porta il cittadino e avverto la necessità di intervenire nel modo migliore.

Quando queste due esigenze confliggono, ad esempio nel caso in cui non ci siano le necessarie coperture economiche per attuare il progetto immaginato o in cui comunque si abbia la consapevolezza di come una scelta rispetto ad un destinatario precluda per motivi economici la possibilità di proporre interventi ad altri cittadini, l’operatore vive momenti emotivamente molto difficili, in cui si sente confuso, tirato da spinte opposte, incapace di scegliere la cosa migliore… migliore per chi?

Pensiamo al caso in cui si giudichi opportuno l’inserimento di un ragazzo con disabilità in una struttura residenziale o in un centro diurno; si tratta di un intervento abbastanza oneroso, che fa subito portare il pensiero ai relativi costi che si profilano. Ma non perché l’assistente sociale sia interessato a “far risparmiare” il proprio ente, bensì perché sa che un ingente utilizzo di risorse per una certa persona si traduce in una diminuzione del budget a disposizione per gli altri interventi.

Se si schiera con le necessità del proprio ente, assumendo i suoi vincoli come i propri, rischia di ricadere nello stesso atteggiamento difensivo, percependo ogni nuovo utente come una potenziale minaccia alla sostenibilità economica della propria area.

Se parteggia per i bisogni e i diritti degli utenti, corre il rischio di proporre interventi velleitari, ottimi ma irrealizzabili o comunque incompatibili, nell’ambito delle risorse esistenti, con altri bisogni e di fomentare l’irritazione dei cittadini nei confronti della cosa pubblica, percepita come insensibile e lontana.

Per non essere travolto dall’emotività, l’assistente sociale ha bisogno di spazi di pensiero in cui dar voce a questi conflitti interiori e cercare strategie di sopravvivenza, come quelle che sono di seguito evidenziate e analizzate.

 

Strategia 1 – Riconoscere il conflitto

La premessa necessaria è riuscire a far emergere questa situazione dilemmatica, riconoscendo la propria fatica professionale e personale ad abitare questo territorio di frontiera, a metà strada tra le risposte del welfare e le domande dei cittadini.

A questo proposito sono molto importanti i momenti di supervisione, o quantomeno di intervisione tra pari: momenti in cui mettere in pausa l’operatività del quotidiano, in cui prendere temporaneamente le distanze dal “devo fare” per cercare di collocare la propria azione in una prospettiva più ampia, facendosi aiutare dal punto di vista altrui.

Solo dandoci degli spazi dedicati e protetti possiamo far affiorare i pensieri e le emozioni più complesse, quelle che richiedono tempo e calma per emergere.

Un altro momento da creare è quello della lettura e scrittura professionale: anche questa è un’occasione per acquisire nuovi spunti e per esercitare quella riflessività necessaria a vivere con più consapevolezza il proprio ruolo.

 

Strategia 2 – Il problema non è mio (ma mi riguarda)

Un secondo passaggio utile per la presa di coscienza della propria situazione è di riconoscerla come strutturale e non come individuale, cioè come insita nel contesto di lavoro in cui si è inseriti e non dipendente dalla propria soggettività (il problema non è “mio”).

In Italia non sono mai stati definiti i livelli essenziali di assistenza, non esistono finanziamenti sufficienti e continuativi per sostenere il sistema dei servizi e delle prestazioni sociali e gli enti locali possano compiere scelte discrezionali nell’approvazione del proprio bilancio. Questo è un dato di fatto e non dipende da me. Così come il fatto che, pur in mancanza di diritti soggettivi effettivamente esigibili, i cittadini chiedano a gran voce l’intervento pubblico per essere sostenuti nelle loro condizioni di bisogno e si rivolgano ai Servizi sociali comunali in quanto interfaccia tra loro e il Comune.

Riuscire a collocarsi in una prospettiva più ampia, comprendendo i vincoli che il sistema di welfare impone, permette all’assistente sociale di riconoscere i diversi livelli di responsabilità, assumendosi solo quelli rispetto a cui può effettivamente agire. Perché è vero che non ho creato io il problema, ma esso mi riguarda molto da vicino e mi sollecita la ricerca di risposte.

 

Strategia 3 – Spostare alcune funzioni a livelli territoriali più ampi

Sapere che la situazione in cui sono inseriti i colleghi è analoga alla propria, ci induce a cercare risposte comuni per farvi fronte.

Per chi opera all’interno di piccoli comuni e si trova quindi a essere l’unico assistente sociale, è importante poter accedere ad un livello territoriale superiore – variamente organizzato e denominato sulla base degli assetti locali dei servizi – dove superare i particolarismi ed elaborare risposte sovracomunali che vadano a beneficio di tutti.

Le soluzioni sono diverse – da forme di unione / convenzione / consorzio tra comuni, alla delega a enti terzi come le Aziende sanitarie, alla creazione di organismi ad hoc – ma il principio è il medesimo: se pensiamo all’eventualità che un Comune di 3.000 abitanti debba improvvisamente collocare in comunità tre fratelli, magari a fine anno quando gran parte delle risorse sono già state spese, ciò risulterebbe insostenibile, e questo è senz’altro un primo motivo per cui sono adottate tali forme di integrazione.

Esse inoltre consentono anche di allentare il legame tra la singola situazione sociale e il relativo impegno di spesa del Comune di appartenenza, contribuendo così ad abbassare la tensione cui sono sottoposti gli operatori coinvolti.

Oltre a consentire una più serena ed efficiente gestione delle risorse economiche, la gestione della presa in carico all’interno di strutture organizzative più complesse e territorialmente più ampie permette di inserire elementi qualificanti quali la supervisione, la formazione comune, la creazione di standard di lavoro condivisi, ecc.; o comunque di offrire all’assistente sociale di un piccolo comune quell’ambito di relazione e di confronto che può costituire un supporto prezioso nelle difficoltà quotidiane.

 

Strategia 4 – Fornire solidi elementi per la programmazione

Una buona conoscenza dei meccanismi che sottostanno al contesto lavorativo in cui si è inseriti permette l’individuazione di strategie utili anche per poter svolgere del lavoro sociale di qualità all’interno del proprio ente. Il riferimento è a tre possibili azioni: fornire al decisore politico degli elementi solidi su cui fondare le proprie scelte programmatiche, riconoscere i livelli decisionali e di conseguenza i propri margini di autonomia, rimettere ad altri le scelte che non ci competono.

Con la prima affermazione si intende riconoscere la necessità che l’amministratore locale chiamato alla fine di ogni anno a definire il bilancio previsionale e gli obiettivi per l’anno successivo debba disporre di tutti gli elementi decisionali utili per poter compiere delle scelte ragionate. È interesse e responsabilità del personale tecnico, tra cui gli assistenti sociali, fornire i dati relativi all’andamento del proprio servizio, argomentando in modo chiaro la necessità di allocare quali risorse per quali progetti e dimostrando l’efficacia degli interventi che si chiede di continuare a finanziare. Non è infatti pensabile che gli amministratori allochino risorse in modo casuale o sulla semplice scorta della spesa storica, soprattutto in tempi di tagli: occorre presentare elementi forti che diano conto della necessità di certe scelte, anche se onerose.

Un esempio può riguardare la spesa per l’assistenza educativa scolastica agli studenti con disabilità: anche ipotizzando che tutti gli amministratori siano ormai consapevoli del preciso obbligo di legge che impone ai Comuni di fornirla, sembra ci sia ancora confusione sulle caratteristiche di questo intervento e sulle sue differenze rispetto all’insegnante di sostegno. Offrire al decisore politico informazioni chiare sul punto, evidenziando il tipo di interventi attuati dal proprio servizio, le professionalità degli operatori ingaggiati con gli studenti, la qualità degli interventi, i ritorni in termini di raggiungimento degli obiettivi prestabiliti, significa aumentare la consapevolezza degli amministratori rispetto all’opportunità di stanziare adeguati finanziamenti.

 

Strategia 5 – Assumersi la propria autonomia professionale

Un altro aspetto da tener presente, soprattutto per gli assistenti sociali impegnati nei Comuni di dimensioni piccole e medie, in cui il livello politico è molto prossimo, è avere consapevolezza della distinzione dei ruoli tra decisore politico e operatore sociale e di conseguenza riuscire a individuare e difendere i propri spazi di autonomia professionale. A prescindere dal fatto che i rapporti possano essere molto buoni, la normativa definisce chiaramente quali sono le rispettive competenze e responsabilità di scelta. In particolare, all’amministratore locale spetta l’individuazione degli obiettivi programmatici, la definizione delle risorse finanziare, umane e strutturali per raggiungerli, l’approvazione dei regolamenti. Al dipendente comunale, assistente sociale compreso, compete l’attuazione degli interventi attribuiti per legge, all’interno del quadro di obiettivi, risorse e norme interne delineato dal decisore politico locale. Questo significa che le singole scelte relative alla casistica trattata non sono di competenza politica, ma ricadono entro i confini dell’autonomia professionale. E vanno preservate in tal senso. Infatti se, come si diceva sopra, la collocazione del servizio sociale all’interno dell’ente locale rende strettissimo il rapporto tra cittadino in stato di bisogno (quindi potenziale destinatario di un intervento con un peso economico) e istituzione deputata ad accoglierlo (quindi potenziale erogatore del finanziamento al cittadino), è fondamentale che l’iter per la valutazione del bisogno e la progettazione dell’intervento sia gestita dal personale tecnico, senza ingerenze, perché è il tecnico che è in grado di garantire che il processo sia condotto nel modo più trasparente e professionale possibile.

 

Strategia 6 – Riconoscere i confini della propria responsabilità

Un altro aspetto da avere in mente lavorando all’interno del contesto comunale è il limite delle proprie responsabilità e quindi del proprio potere di scelta. L’assistente sociale impegnato nel lavoro sul caso opera con le persone che ha di fronte, approfondendo la situazione e arrivando a una valutazione sociale che gli permetterà di ipotizzare un preciso progetto di intervento. Il passaggio successivo, quello della valutazione della sostenibilità economica del progetto ipotizzato, deve essere mantenuto distinto e, laddove possibile, restare in capo ad un altro soggetto (cosa che succede quando c’è un livello gerarchicamente superiore, sia esso un responsabile di area o una posizione organizzativa). Distinguere i due momenti è fondamentale per evitare che il primo sia condizionato dal secondo.

Dopodiché, se risultasse che non ci sono risorse economiche sufficienti a finanziare l’intervento proposto, né subito né in un secondo tempo, e non è pensabile di attivare altre progettualità, all’assistente sociale non resta che segnalarlo in modo formale e rimettersi alla decisione del livello decisionale superiore. Sicuramente non è pensabile cambiare la valutazione a cui si è pervenuti, magari adattandola alle possibili risposte che l’ente è in grado di dare. Per fare un esempio, se valutiamo che un nucleo familiare abbia bisogno di un intervento educativo domiciliare quotidiano, non possiamo sostenere che vada ugualmente bene un intervento che impieghi la metà delle ore; né possiamo partire dal vedere quante ore abbiamo a disposizione per valutare il tipo di bisogno familiare. Anche se è molto impegnativo, l’assistente sociale che opera professionalmente si sforza di tenere distinti i piani; se poi risultano inconciliabili, l’unica possibilità è di consegnare questi elementi al livello gerarchico superiore perché assuma una decisione in merito, che eventualmente può essere quella di chiedere all’organo politico di operare una variazione di bilancio per trovare le risorse necessarie.

 

Strategia 7 – Adottare un atteggiamento empatico con l’utenza

Se queste strategie sono utili a gestire il rapporto con il nostro ente di appartenenza, cosa possiamo mettere in campo sull’altro fronte, quello dell’incontro quotidiano con il cittadino e i suoi bisogni? In un recente video messaggio rivolto al Presidente della Repubblica da un gruppo di persone con disabilità, di loro familiari e di operatori, una mamma denuncia: “gridiamo contro un sistema inaffidabile che ci tratta da stupidi” (www.youtube.com/watch?v=iVAfjPzzZQQ, pubblicato il 12/3/2017). Questa frase esemplifica molto bene il vissuto delle famiglie che si sentono trascurate dal nostro stato sociale: esso non solo viene percepito come precario, incerto, quindi inaffidabile, ma anche opaco, sfuggente, incapace di intessere un dialogo adulto e franco con i propri cittadini, che quindi si sentono trattati da stupidi.

Come assistenti sociali comunali rivestiamo l’importantissimo ruolo di interfaccia tra il sistema di welfare e i cittadini. Pur all’interno di un quadro di regole e risorse in larga parte indipendenti dalla nostra diretta e immediata volontà, abbiamo però la responsabilità di fornire ai cittadini ogni informazione utile per renderli consapevoli e competenti. Consapevoli di ciò che sta loro accadendo, di come funziona la nostra presa in carico, quali passaggi prevede, con quali tempi, quali sono i livelli decisionali coinvolti. Competenti rispetto alle risorse del territorio, alle opportunità a cui possono accedere e ai servizi attivabili.

Spiegare, dare informazioni con un linguaggio non burocratico e adeguato al livello linguistico-culturale del nostro interlocutore, è il primo passo per costruire una relazione di rispetto e fiducia tra il sistema che rappresentiamo e i cittadini. Serve a contenere lo squilibrio di potere insito nella relazione di aiuto, evitando che il cittadino si percepisca in balia degli eventi, all’interno di un processo che non conosce e non controlla. Viceversa, prendere decisioni unilaterali, senza fornire spiegazioni, senza porsi in un atteggiamento dialogante, senza rendere conto dei tempi lunghi della macchina amministrativa, ignorando il desiderio dei cittadini di essere protagonisti delle vicende che li riguardano, significa non riconoscerli come soggetti adulti in grado di autodeterminarsi. Per riprendere l’espressione succitata, significa trattare i cittadini “da stupidi”.

 

Strategia 8 – Lavorare con la comunità e con la rete

Proprio perché l’assistente sociale ha in mente che i cittadini sono attori da coinvolgere, in quanto portatori di risorse e di soluzioni per i loro stessi problemi, un’ulteriore strategia per far fronte alla limitatezza delle risorse pubbliche consiste nell’ampliare lo sguardo e coinvolgere la comunità. Oltre al servizio sociale comunale, infatti, in ogni territorio ci sono altri soggetti che operano a vario titolo per promuovere il benessere delle persone che lì vi abitano: soggetti istituzionali e non istituzionali, gruppi più o meno formali, singoli cittadini. Pensiamo alle scuole, alle parrocchie, ai medici, ai comitati genitori, alle associazioni culturali e sportive, ma anche ad alcuni soggetti del privato particolarmente sensibili alle tematiche sociali (aziende, punti vendita locali della grande distribuzione, banche legate al territorio, ecc.). Conoscere queste realtà e creare occasioni per interloquire con loro, all’interno di una relazione in cui sono reciprocamente chiari i ruoli e le aspettative, è il primo passo per costruire possibili collaborazioni. Queste potranno poi essere fattivamente attivate su alcuni temi specifici, rispetto ai quali si evinca l’interesse della collettività a prendersi cura di se stessa. Un esempio può riguardare il lavoro condotto all’interno dei grandi complessi di edilizia residenziale pubblica: tradizionalmente considerati come un coacervo di situazioni familiari multiproblematiche, ad uno sguardo più attento si rivelano popolati da persone ricche di risorse e storie di solidarietà. L’assistente sociale agisce allora non tanto da erogatore di risorse, quanto da valorizzatore di questo patrimonio e da attivatore di nuove sinergie con gli altri soggetti del territorio (ad esempio coinvolgendo un’associazione sportiva perché svolga alcune delle sue attività all’interno degli spazi verdi pertinenti ai palazzi popolari). Avendo una buona conoscenza dei diversi attori del territorio e di ciò che possono mettere in campo, l’assistente sociale promuove connessioni, facilita contatti, catalizza processi di conoscenza reciproca al fine di creare nuove occasioni di benessere.

Analogamente, la conoscenza e la collaborazione con gli altri attori viene utilizzata dall’assistente sociale per aumentare l’efficacia degli interventi attraverso il lavoro di rete. Si pensi alla scarsità di risorse, sia umane che finanziare, che attanaglia perennemente l’ambito della tutela dei minori: una buona collaborazione con la scuola, sviluppata anche attraverso l’individuazione di buone prassi a cui segua però un’effettiva implementazione, amplifica le possibilità di interventi preventivi e mirati del servizio sociale, traducendosi in una gestione più efficace delle situazioni.

 

Strategia 9 – Rappresentare pubblicamente le proprie istanze

Un ultimo spunto mi permette di tornare al punto da cui ero partita: dicevamo della necessità di conoscere il funzionamento attuale del nostro sistema di welfare per trovare le necessarie strategie di sopravvivenza. Avere chiara la fotografia dello status quo non implica però considerarlo qualcosa di immutabile. Come tutte le istituzioni sociali, anche il sistema di welfare è soggetto al cambiamento ed è passibile di riforme, purché nel dibattito pubblico ci siano attori sufficientemente rappresentativi ed efficaci per portare avanti delle proposte convincenti. Uno di questi è senz’altro costituito dall’Ordine professionale degli assistenti sociali: raccogliendo le istanze di chi lavora nei diversi territori e toccando con mano gli effetti delle politiche sociali, è un soggetto in grado di portare contenuti preziosi alla discussione. Un’altra buona strategia di mettere in campo è quindi quella di frequentare i nostri Ordini regionali per agire quella responsabilità nei confronti della società di cui parla il nostro codice deontologico.

Con lo stesso spirito possiamo attivarci all’interno di ogni altra formazione organizzata che svolga funzione di advocacy rispetto ai bisogni dei cittadini, come ad esempio le associazioni che si battono per i diritti delle persone con disabilità. Le loro richieste, che talvolta vengono vissute dai singoli operatori come “minacciose” nei propri confronti, sono in realtà istanze di cambiamento che riguardano il sistema in cui tutti siamo inseriti, utenti e professionisti. Creare un’alleanza per perorare le cause comuni appare quindi un esito naturale. A questo proposito, si pensi all’ottima azione di lobby condotta dall’Alleanza contro la povertà, che ha portato finalmente all’introduzione di un Reddito di inserimento anche in Italia: tanti e diversi soggetti sono riusciti a raggrupparsi in un’unica formazione, rappresentando un’istanza precisa e avendo l’indispensabile forza per interloquire sui tavoli decisionali del ministero.”

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*Questo numero di Welfare Oggi (3/2017) è il terzo dedicato ad approfondire la figura dell’assistente sociale:
– Welfare Oggi n. 1/2017, curato da Luca Fazzi, dedicato all’assistente sociale nel terzo settore;
– Welfare Oggi n. 2/2017, curato da Teresa Bertotti, dedicato all’assistente sociale nell’ente locale
– Welfare Oggi n. 3/2017, curato da Simonetta Filippini, dedicato all’assistente sociale libero professionista

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