Perché i genitori che maltrattano non te lo dicono? neanche per chiedere aiuto o per dividere il peso della loro fatica di essere genitori? perché non provano a rivolgersi all’insegnante, all’amico, all’assistente sociale?
La lettura di quanto scrive Stefano Cirillo nel suo “Cattivi genitori” (2005) e ne “La famiglia maltrattante” (Cirillo, Di Blasio, 1989) mi ha ulteriormente convinta che dobbiamo essere noi adulti, noi insegnanti, allenatori, vicini di casa, operatori sociali, a raccogliere i segnali di un maltrattamento familiare perché di sicuro non saranno i genitori ad autodenunciarsi.
Di fronte a lividi, racconti e comportamenti preoccupanti, inutile provare “a parlare” coi genitori. Perché questi non ammetteranno di aver usato violenza sul loro piccolo. Anche il genitore maltrattante, infatti, sa benissimo che questo è un tabù sociale, oltre che un reato punito dalla legge. E perché dovrebbe mettersi nei guai? Per questo, pure di fronte all’evidenza “si assiste negazioni strenue anche di fatti inequivocabili, a giustificazioni pretestuose al limite dell’assurdo, a impervi silenzi e ostinate reticenze, a tentativi di scaricare la responsabilità del maltrattamento su terzi” (Cirillo e Di Blasio, 1989, p. 4).
Oltre a ciò, molti genitori maltrattanti hanno sfiducia nei servizi sociali e sociosanitari, sono terrorizzati dall’immaginario negativo legato agli allontanamenti (“mi portano via il bambino”), hanno instaurato relazioni di cronicità assistenziale coi servizi (aiuti economici reiterati e fine a se stessi) o non conoscono le possibilità di aiuto che possono chiedere (Cirillo, 2005, p. 16).
A ciò si aggiunge che non di rado questi adulti hanno problemi psichiatrici, sono tossico o alcool dipendenti. “Possiamo facilmente renderci conto come individui profondamente depressi, suicidari, deliranti, che utilizzano alcol o droghe come tentativi autoterapeutici, o che soffrono di altri tipi di deformazione della realtà, non solo non riescano facilmente a chiedere aiuto per sè, ma tanto meno lo facciano per il loro bambini, che trascinano nelle loro drammatiche vicissitudini benché li amino e non intendano fare loro del male” (Cirillo, 2005 p. 16).
Per tutti questi motivi, la famiglia maltrattante tendenzialmente non è una famiglia che chiede aiuto.
E non si può sperare che lo faccia il bambino. Forte del suo “robustissimo cordone psicologico che lo vincola alle figure d’attaccamento”, condizione necessaria per restare legato ai suoi adulti di riferimento e poter così ricevere le indispensabili cure per crescere e arrivare all’età dell’indipendenza, il piccolo esclude la possibilità che queste figure possano essere cattive. Quindi il legame di attaccamento, che consente il bambino a fidarsi dei grandi e di crescere bene, si rivela un boomerang nei casi in cui gli adulti non sono adeguati. Infatti, “se questo dispositivo di idealizzazione del genitore è di grande efficacia per la generalità dei bambini, purtroppo condanna le eccezioni, vale a dire i figlio degli adulti incompetenti, trascuranti e maltrattanti, a subire un danno senza poterlo decodificare come tale” (Cirillo, 2005, p.15).
Questo significa che il bambino vittima di maltrattamento non ha gli strumenti per nominare correttamente quello che subisce. E quindi nemmeno lui sarà in grado di denunciare i suoi genitori.
Per questo dobbiamo essere noi, gli adulti della comunità in cui vivono i bambini – e in particolare noi adulti dei servizi educativi, scolastici e sociali – a “vigilare per rilevare i casi sfortunati di minori che patiscono e tacciono. […] dobbiamo essere preparati a raccogliere segnali fisici o comportamentali, o accenni indiretti in un discorso” (Cirillo, 2005, p.15).
E poi, di fronte a questi segnali che rileviamo magari anche inavvertitamente, dobbiamo avere la forza di prenderne atto in modo cosciente, senza allontanarli (“ma forse mi sono sbagliato…”), senza ridimensionarli (“ma il livido non è poi così grande…”), senza trovare altre spiegazioni più rassicuranti (“ma forse ha raccontato una bugia…”). Ancora una volta concordo con le parole di Cirillo, che dice che “per poterlo fare, però, dobbiamo essere aperti, anche emotivamente, a immaginare che il maltrattamento, la trascuratezza, l’abuso esistano, siano una realtà“. Cosa tutt’altro che facile sia per chi lavora nei Servizi, e che forse è un po’ più abituato, sia per chi lavora nelle scuole e non maneggia questi temi quotidianamente.
Per questo è fondamentale creare prassi di incontro e lavoro condiviso tra scuola e servizio sociale (leggi il post Dalla scuola al Servizio sociale) e saper bene cosa fare in caso diventi necessario fare una segnalazione all’autorità giudiziaria (Quando e come segnalare alla Procura minorile).