Nelle ultime settimane si è molto applaudito all’approvazione dei nuovi Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), il cui aggiornamento era atteso da 16 anni. In effetti è stato un bel risultato… Peccato però che si parli solo dell’assistenza sanitaria. I Livelli Essenziali di Assistenza Sociale (LivEAS) non sono mai stati nemmeno definiti, sebbene siano passati anche per noi 16 anni da quando la nostra legge quadro li ha introdotti! Con conseguenze pesanti per tutti. Quali?
Meno diritti per tutti, cittadini in primis.
Ma andiamo con ordine. Che cosa sono esattamente i livelli essenziali di assistenza, siano essi sanitari o sociali? Sono un elenco delle prestazioni garantite su tutto il territorio nazionale, a cui ogni cittadino può legittimamente aspirare e, in caso di mancato ottenimento, pretendere.
Visto dal punto di vista dei servizi, sono i livelli di assistenza che devono essere messi a disposizione dei cittadini, gratuitamente o previo pagamento di una quota uguale per tutti (ticket), fatti salvo i casi di esenzione.
Quindi, se mia nonna ha un tumore va in ospedale e riceve tutte le cure necessarie senza dover pagare un quattrino. Ma non solo: senza che sia lei a dover dimostrare di averne bisogno. C’è infatti un medico che si accerta del suo livello di salute e le propone direttamente le cure appropriate, senza minimamente porsi il problema dei costi e della copertura finanziaria. Sicuramente non le dice: “la sua situazione mi sembra meritevole di cura, adesso devo fare un passaggio con il mio responsabile che per verificare il budget a disposizione, le daremo risposta”. Perché il budget sicuramente c’è.
Proviamo a immaginare se fosse lo stesso anche in ambito sociale?
Mia nonna andrebbe dall’assistente sociale a presentare la sua situazione di anziana in chemioterapia, parzialmente non autosufficiente, senza parenti vicini. L’operatore effettuerebbe una serena valutazione e le proporrebbe l’intervento più adeguato, sapendo che c’è un sistema di finanziamento nazionale che sicuramente andrà a coprire i costi. Del resto, se c’è un bisogno i soldi si devono trovare.Fantascienza?
Se ci fossero i Livelli Essenziali di Assistenza Sociale le cose sarebbero più o meno così.
Se venissero definite le prestazioni sociali a disposizione dei cittadini, questi potrebbero davvero richiederle. E lo Stato le finanzierebbe adeguatamente, sollevando i Comuni dall’onere di dovervi far fronte con le proprie risorse.
Ma attenzione, le prestazioni non devono solo essere enunciate, devono proprio essere definite nel dettaglio. Solo così il cittadino può esercitare pienamente il proprio diritto soggettivo a beneficiarne.
Per esempio, prendiamo l’assistenza educativa scolastica: la normativa ha detto e ridetto che deve essere fornita dai Comuni, ma non ha mai indicato attraverso quale personale, con quali modalità, per quante ore, ecc. Con il risultato che i genitori di uno studente con disabilità non possono realmente esigere una prestazione precisa, ma si devono attenere alla valutazione del Servizio sociale, il quale a sua volta deve rimettersi alle disponibilità del bilancio comunale.
La nostra cara l.328/00 lo dice chiaramente: io vi indico i LivEAS, ma le caratteristiche e i requisiti devono essere fissati dal Piano Nazionale degli Interventi e dei Servizi Sociale, dal Piano Regionale e dal Piano di Zona. Perché altrimenti sono prestazioni definite in modo così generico da non poter essere effettivamente esigibili: come si fa a pretendere una cosa che non si capisce bene se ci spetta?
La 328/00 dice anche che i LivEAS devono essere finanziati da un apposito fondo, il Fondo Nazionale per le Politiche Sociali (FNPS).
Art. 20, comma 2
[…] gli interventi di seguito indicati costituiscono il livello essenziale delle prestazioni sociali erogabili sotto forma di beni e servizi secondo le caratteristiche ed i requisiti fissati dalla pianificazione nazionale, regionale e zonale, nei limiti delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali, tenuto conto delle risorse ordinarie già destinate dagli enti locali alla spesa sociale:
a) misure di contrasto della povertà e di sostegno al reddito e servizi di accompagnamento, con particolare riferimento alle persone senza fissa dimora;
b) misure economiche per favorire la vita autonoma e la permanenza a domicilio di persone totalmente dipendenti o incapaci di compiere gli atti propri della vita quotidiana;
c) interventi di sostegno per i minori in situazioni di disagio tramite il sostegno al nucleo familiare di origine e l’inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza di tipo familiare e per la promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza;
d) misure per il sostegno delle responsabilità familiari, ai sensi dell’articolo 16, per favorire l’armonizzazione del tempo di lavoro e di cura familiare;
e) misure di sostegno alle donne in difficoltà per assicurare i benefici disposti dal regio decreto-legge 8 maggio 1927, n. 798, convertito dalla legge 6 dicembre 1928, n. 2838, e dalla legge 10 dicembre 1925, n. 2277, e loro successive modificazioni, integrazioni e norme attuative;
f) interventi per la piena integrazione delle persone disabili ai sensi dell’articolo 14; realizzazione, per i soggetti di cui all’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, dei centri socio-riabilitativi e delle comunità-alloggio di cui all’articolo 10 della citata legge n. 104 del 1992, e dei servizi di comunità e di accoglienza per quelli privi di sostegno familiare, nonché erogazione delle prestazioni di sostituzione temporanea delle famiglie;
g) interventi per le persone anziane e disabili per favorire la permanenza a domicilio, per l’inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza di tipo familiare, nonché per l’accoglienza e la socializzazione presso strutture residenziali e semiresidenziali per coloro che, in ragione della elevata fragilità personale o di limitazione dell’autonomia, non siano assistibili a domicilio;
h) prestazioni integrate di tipo socio-educativo per contrastare dipendenze da droghe, alcol e farmaci, favorendo interventi di natura preventiva, di recupero e reinserimento sociale;
i) informazione e consulenza alle persone e alle famiglie per favorire la fruizione dei servizi e per promuovere iniziative di auto-aiuto.
E infatti gli articoli 18, 19 e 20 si profondono in accurate spiegazioni su come devono essere scritti questi piani e come deve essere questo fondo.
Come siamo messi, 16 anni dopo?
Il Piano Nazionale è stato approvato solo una volta (Piano 2001-2003), forse sulla scorta dell’entusiasmo per l’approvazione della legge quadro.
Il Fondo Nazionale è andato in caduta libera fino al 2012, per poi risollevarsi un pochino ma comunque senza mai raggiungere cifre importanti (300 mln nel 2015, dati Ministero).
Gli unici Piani effettivamente redatti sono quelli su scala regionale e zonale.
Insomma, un bilancio un po’ magrino…
Con quali conseguenze? A farne le spese, un po’ tutti.
I cittadini, ovviamente, che non sanno esattamente che cosa gli spetta e che cosa possono legittimamente richiedere, per cui devono rimettersi alle decisioni degli uffici comunali e degli Amministratori locali. Acuendo quello squilibrio di potere già insito nel rapporto tra singolo utente e pubblica amministrazione.
Gli assistenti sociali, che sono stretti tra due fuochi: da una parte valutare i reali bisogni delle famiglie, dall’altra non sapere se ci sono sufficienti risorse a bilancio per finanziare gli interventi ipotizzati. Una situazione ambigua che richiede grande equilibrio per evitare che le esigenze finanziarie del proprio ente inducano a sottovalutare le situazioni dei cittadini. Oppure che ci si senta perennemente in colpa per non poter garantire prestazioni che ci appaiono necessarie.
I Responsabili di area, che in mancanza di una legislazione sufficientemente stringente hanno le armi spuntate nell’opporsi ai continui tagli richiesti dagli Amministratori locali. E che purtroppo non possono contare sui trasferimenti statali (FNPS) per compensare i risparmi imposti dal governo locale.
Tutto ciò non fa che aumentare l’eterogeneità territoriale e le disuguaglianze tra eguali.
Essendo tutto rimesso al buon cuore dei politici comunali e alla buona volontà dei dipendenti pubblici, abbiamo Comuni ricchi di servizi e che in ogni modo si sforzano di garantire certi livelli di intervento e altri Comuni tradizionalmente meno sensibili che offrono prestazioni decisamente più al ribasso.
E quindi a seconda del Comune di residenza i cittadini italiani hanno diritti più o meno garantiti.
Come operatori del welfare vogliamo far sentire la nostra voce? e svolgere una funzione di advocacy, facendoci portavoce dei nostri utenti, soprattutto i più fragili, che difficilmente trovano adeguata rappresentanza?
Forse è il caso di cominciare a frequentare di più i nostri Ordini professionali…
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